Sono nata a Milano nel
lontano 1967
in una giornata di primavera. C’era sicuramente il sole
e il canto degli uccellini. Non ci credete, lo so, ma me
lo ricordo!
I
miei genitori sono entrambi sordi*
dalla prima infanzia. Lo dico con orgoglio e con
profonda gratitudine. È a loro in primo luogo che è
dedicato il libro, il mio modo per dire grazie!
Mio
fratello, ha
sei anni più di me. Ancora oggi mi emoziona il racconto
del nostro primo incontro, anche se nella realtà non si
può certo dire che fu amore a prima vista, anzi. Pare
che le aspettative fossero assai alte e mi vedevano
protagonista di giochi avvincenti e stupefacenti. La
delusione fu di quelle che non si possono dimenticare!
Soprattutto le mie mani e miei piedi così piccini e
brutti agli occhi di un bambino mi trasformarono, seduta
stante, in un piccolo mostro che rubava l’affetto di
mamma e papà e nell’oggetto preferito delle sue
angherie. Eppure…
Eppure quando i brutti
sogni popolavano il buio, non era infrequente ritrovarci
l’uno nel letto dell’altro con il tacito accordo di non
svelare mai al giorno il segreto della notte. E piano
piano, senza troppe smancerie, siamo diventati grandi
insieme e abbiamo imparato a condividere esperienze,
amicizie, gioie e dolori, con semplicità, come se niente
fosse. Le sue parole del nostro primo incontro sono come
l’inizio di una storia speciale, quella che ti insegna
cosa significa essere fratelli; sono lo sguardo bambino
che è cresciuto con me.
Le
miei radici
abitano in una grande città, Milano e in un piccolo
paese, San Polo D’Enza, nella provincia di Reggio
Emilia. Nel contrasto di due realtà così diverse, nelle
opportunità che mi sono state offerte di vivere con gli
altri la dimensione della comunità e del servizio, ho
imparato ciò che oggi sono. Milano è la città in cui
vivo e in cui ha messo radici la mia nuova famiglia.
Carlo
è mio marito. Lo so, lo so… anche lui è un pittore come
mio padre. Vi assicuro che non l’ho fatto apposta. E’
successo più di vent’anni fa e continua a succedere. Un
mistero bello!
Valentina
è mia figlia, che si avvicina alla maggiore età a passi
di danza. Il nostro primo incontro comincia con un PLOFF
indimenticabile. Un concentrato di felicità che ha
segnato la fine di un travaglio lunghissimo e l’inizio
di una nuova avventura, insieme e per sempre. Non ho
ancora imparato a essere genitore, credo mi ci vorrà
tutta la vita!
Ho frequentato il
liceo scientifico, con non poca fatica, poi quando
finalmente ho trovato la mia strada, tutto è diventato
più semplice. Mi sono diplomata alla scuola per
Educatore Professionale ESAE di Milano, e poi a Bologna
in Scienze dell’Educazione.
Lavoro nel
sociale da più di vent’anni, soprattutto con bambini e
adolescenti, prima in una comunità alloggio per minori,
poi in un Centro di Aggregazione Giovanile. E mi piace
molto. Credo sia una gran fortuna, di questi tempi!
Molti di questi bambini e ragazzi sono oggi diventati
uomini e donne di cui sono fiera!
Gli amici sono
sempre stati importanti nella mia vita. Con alcuni di
loro c’è una storia lunga di anni; con altri ho
condiviso esperienze intense, poi abbiamo percorso
strade diverse; altri sono diventati parte del mio
presente da poco tempo, ma fanno già parte del mio
futuro; Antonella non c’è più ed è un dolore ancora
grande, ma mi è vicina in un modo nuovo che mi commuove.
Tutti hanno contribuito alla mia storia!
Credo nella Musica,
in quel “qualcosa” che non sono le orecchie a
percepire, ma che riempie l’universo d’Amore. E credo
nella possibilità di essere felici. E nella danza che si
affida alla Musica senza giudicarla, o almeno ci prova!
E allora non vi sarà
difficile comprendere a chi è dedicato questo mio
primo romanzo…
A mia
madre e mio padre
che in
muti e silenziosi
gesti
d’amore
mi
hanno concepito alla vita
e
insegnato ad amarla;
A mio
fratello
che
custodisce il ricordo prezioso
delle
mie minuscole mani
e dei
miei piedini
che
sono diventati grandi,
insieme;
A Carlo
e Valentina
la
famiglia che ho scelto
per
tutta la vita;
Ad
Antonella;
Ai
bambini che ho amato;
agli
amici cari
e a
tutti coloro
che
danzano con me
la
Musica.
*Essere
figlia udente di genitori sordi
La mia casa è sempre
stata ricca di amici. Molti di loro erano sordi, come i
miei genitori. Ricordo le feste, gli abbracci, le risa e
le loro voci diverse che si sovrapponevano e facevano da
sfondo ai miei giochi infantili. Poi d’un tratto, quando
nelle case scendeva il bacio della buona notte, le voci
si spegnevano come d’incanto, per non disturbare i
vicini, e lasciavano spazio alle parole disegnate dai
delicati movimenti delle labbra e da mani silenziose.
Avevo tre anni, ma
ricordo perfettamente l’incanto di una sera. Le mani
danzavano nell’aria e le labbra, le labbra dipinte delle
signore, si muovevano con eleganza ed emettevano un
suono delicato che mi affascinava. Lo imitai giocando
con la mia bambola e mi sentii davvero bellissima. Mio
fratello, di sei anni maggiore di me, segnalò subito
l’anomalia e riaccese le voci che tentarono
amorevolmente di spiegarmi che io non ero sorda, che ero
fortunata, che dovevo usare la voce delle parole. Il
silenzio non mi apparteneva. Alla malinconia seguì la
consapevolezza della mia diversità. Da quel giorno la
voce acuta e squillante di mia mamma non ha mai smesso
di farmi compagnia, anche quando l’opportunità
consiglierebbe un discreto sussurrare. Oggi che sono
donna e madre lo riconosco come un piccolo, potente e
ripetuto atto d’amore, frutto di un profondo rispetto
per la mia diversità. E i miei passi verso il mondo dei
suoni e dei rumori si sono fatti sempre più sicuri e
pieni di profonda gratitudine.
Non c’è mai stato nulla
di anomalo per me nella sordità dei miei genitori, ma la
cosa ha sempre suscitato molta curiosità. I bambini, ma
soprattutto gli adulti, meravigliati della comunicazione
fluente tra noi, fatta di parole scandite e intenzionali
movimenti delle mani, non riuscivano a trattenersi da
porre domande per me incomprensibili: “Ti dispiace che i
tuoi genitori siano sordi?”, “Ma come… non ti piacerebbe
avere dei genitori normali?”.
Questa faccenda della
“normalità” era una cosa davvero strana. Io mi guardavo
intorno e i genitori dei miei compagni non mi sembravano
affatto migliori. Mia mamma e mio papà erano due artisti
e tutti si complimentavano per le cose meravigliose che
sapevano dipingere, per le numerose coppe vinte. Io ne
ero molto orgogliosa, perché mai avrei dovuto desiderare
che fossero diversi? Così ho imparato presto a non dare
troppo peso a quella domanda un po’ sciocca. Quando
incontravo un amico nuovo mi affrettavo a raccontargli
dei miei genitori e a rispondere alle sue domande
curiose: “quando suona il campanello si accende la luce;
se devo parlare con loro basta guardarli in viso perché
leggono le mie labbra; no, non posso mettere la musica a
tutto volume perché avvertono le vibrazioni...” Un
interrogatorio che durava poco più di qualche minuto,
poi si ricominciava a giocare. I bambini per fortuna
colgono subito l’essenziale!
Ho imparato presto a
riconoscere le barriere invisibili del suono. A me e mio
fratello le responsabilità dell’udire non sono mai
pesate più di tanto. Telefonare, tradurre le parole di
una trasmissione senza sottotitoli, accompagnarli negli
acquisti, a parlare con i dottori, con l’impiegato alla
banca etc, sono ancora oggi prassi quotidiana accentuata
dalla non più giovane età. Ci contraccambiano con la
loro disponibilità e attenzione alle nostre piccole
necessità.
Le barriere invisibili
del pregiudizio sono invece più insidiose. Sono quelle
del dottore che guardava con faccia ebete e divertita i
miei genitori senza prestare nessuna attenzione alle
loro parole e poi si rivolgeva a me, bambina, chiedendo
: “Cosa hanno detto?”. Sono quelle di quanti, credendosi
aperti e generosi nel giudizio, minimizzano le
differenze e le fatiche e si ostinano a considerarli
“uguali”.
Ora osservo i miei
anziani genitori, affaticati dall’età, affrontare le
piccole sfide quotidiane con più stanchezza, ma con la
stessa dignità e coraggio. Sento lo sguardo dei medici,
posato su noi figli, mentre amorevolmente traduciamo le
loro parole difficili e ci prodighiamo nella cura.
Avverto una considerazione silenziosa: “Due genitori
tanto amati devono essere due genitori che hanno tanto
amato”. E alla fine, credo, questa è davvero l’unica
cosa che conta!
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